- Sistema di gioco di base più ricorrente: 4-4-2
- Sistema di gioco in fase di possesso: 4/2-4
- Sistema di gioco in fase di non possesso: 5-3/2
Chi ha detto che il calcio è uno sport complicato, che si possono ottenere buoni risultati solo macinando gioco, mantenendo il possesso palla e tessendo fitte ragnatele di passaggi corti?
Nel corso del tempo, squadre prive di blasone, senza esperienza e povere di qualità rispetto alle compagini avversarie, si sono tolte grandi soddisfazioni ed hanno ottenuto ottimi risultati, semplicemente mantenendo una chiara identità di gioco durante l’intero arco della stagione sportiva, un’identità costruita attorno a pochi, semplici principi.
Il Chievo Verona della stagione 2001/2002 è senza dubbio stata una di quelle.
Debuttante assoluta nella massima serie, concluse il campionato al quinto posto finale, ma cullò per buona parte della stagione il sogno di potersi aggiudicare lo scudetto. A Verona, I tifosi clivensi respirarono a lungo l’aria di montagna, quella che, per intenderci, si respira in vetta. Solo la tragica fine di Jason Mayélé (deceduto in un incidente stradale il 2 marzo 2002), che scosse duramente l’ambiente, e l’estrema durezza e competitività della massima competizione italiana di calcio (soprattutto dei primi anni 2000), nella quale, sulla lunga distanza, i valori emergono inesorabilmente, non permisero l’avverarsi del miracolo.
Alla fine, per un solo punto, il Chievo mancò anche la qualificazione in Champions League, ma ottenne comunque l’affetto e la simpatia dei tifosi di quasi tutta Italia, che affascinati dalla favola della cenerentola provinciale debuttante, ancora oggi ricordano con affetto quella squadra e sono in grado di pronunciarne la formazione titolare come una filastrocca: Lupatelli, Lanna, D’Anna, D’Angelo, Moro, Manfredini, Corini, Perrotta, Eriberto, Corradi, Marazzina.
FASE DI POSSESSO
I mussi volanti agli ordini di Luigi Delneri formavano un 4-2-4: sia i difensori centrali che i due difensori esterni rimanevano indietro in blocco, disposti in linea e avendo cura di mantenere quest’ultima molto stretta, seppur ciò comportasse dover rinunciare a coprire interamente il campo di gioco in ampiezza. L’obiettivo principale era quello di permettere alla squadra di non trovarsi mai sbilanciata nell’eventualità di un’immediata o rapida transizione negativa, se del caso applicando anche la trappola del fuorigioco.

Chiare, precise, definite e ben ripartite erano le mansioni dei due centrocampisti interni. A Corini era affidato il compito di dettare i tempi di gioco e di servire (quando a farlo non erano stati i difensori) con rapide verticalizzazioni, prevalentemente alte, di rado basse, Corradi, Marazzina o i due centrocampisti esterni saliti in profondità. Perrotta era abile a smarcarsi e inserirsi a supporto dell’azione offensiva, specialmente in caso di traversone basso o cross, ma gli era comunque affidato un ruolo più difensivo rispetto al compagno, pertanto partecipava meno alla costruzione della manovra, ammesso che di costruzione vera e propria si potesse parlare, data l’elementarità della tipica azione offensiva di quell’edizione del Chievo Verona, che più o meno si svolgeva così: palla lunga verso Corradi (attaccante mobile, in possesso di un’imponente struttura fisica, estremamente abile nel gioco aereo e capace di difendere il pallone efficacemente), propostosi in zona rifinitura tra le linee avversarie, che di sponda aerea cercava di servire il compagno di reparto, Marazzina (a differenza del compagno, meno potente, ma più agile e rapido), o uno dei due esterni di centrocampo smarcatisi in profondità, ovviamente quello dei due a lui più vicino.

Il passo immediatamente successivo era una rapida conclusione in porta, se necessario a seguito di un tentativo di 1 vs 1.
Nonostante la semplicità e la prevedibilità, questo tipo di gioco diede frutti, anche perché Corradi e Marazzina sapevano svariare su tutto il fronte offensivo, non lasciando punti di riferimento ai difensori avversari. Inoltre, Il bomber originario di Pandino, in provincia di Cremona, era molto abile ad attaccare la profondità, tagliando alle spalle dei difensori avversari coi tempi giusti.
Sovente l’azione poteva svilupparsi in maniera differente: poteva accadere che Eriberto o Manfredini, entrati in possesso del pallone, decidessero di percorrere la fascia in solitaria, cercando dei rapidi dai e vai con i centrocampisti interni o con i due attaccanti, smarcatisi a supporto e sostegno dei compagni. L’obiettivo principale di queste sgroppate era guadagnare una posizione favorevole per effettuare un traversone basso, o un cross dalla trequarti difensiva avversaria. Come detto, per scelta tattica i difensori esterni rimanevano indietro durante lo sviluppo del gioco offensivo, perciò estremamente rare erano le sovrapposizioni. Si registrava, dunque, una grande fiducia della squadra nelle capacità dei due centrocampisti laterali di creare azioni pericolose. Nel caso in cui, invece, il pallone fosse finito al portiere o lo si fosse dovuto rimettere in gioco dal fondo, la rinuncia a costruire la manovra dal basso era totale. Lupatelli rinviava lungo nella zona di campo dove agiva Corradi, nella speranza che questi, con una spizzata o una sponda aerea, innescasse immediatamente un’azione offensiva pericolosa.
FASE DI NON POSSESSO
In fase di non possesso, cruciale era il lavoro dei due centrocampisti esterni (a loro era richiesta una mole di lavoro immensa e non a caso furono, insieme ai due attaccanti, i giocatori maggiormente sostituiti nel corso della stagione). Infatti, quando la squadra avversaria si trovava in possesso del pallone nella metà campo difensiva del Chievo, uno dei due centrocampisti laterali, quello occupante il lato opposto del campo rispetto al portatore di palla, era chiamato ad abbassarsi, formando, quindi, una linea difensiva a 5 agente a zona. Contemporaneamente anche i due centrocampisti interni si abbassavano, accorciando notevolmente la distanza tra il reparto difensivo e quello di centrocampo, in modo tale da aumentare la densità nella porzione centrale del campo.
I due centrali avevano la libertà di uscire, rompere la linea e cercare l’anticipo, sopratutto sulle palle alte, con avversario spalle alla porta. In queste situazioni, a seconda dei casi, gli altri tre difensori (a cui si aggiungeva eventualmente uno dei centrocampisti laterali) solitamente coprivano lo spazio apertosi stringendosi. Sulle fasce i due difensori esterni non esitavano ad uscire dalla linea difensiva per aggredire gli attaccanti esterni o i centrocampisti esterni in possesso del pallone, sfruttando il naturale raddoppio offerto dal centrocampista laterale. Eventualmente, la linea difensiva a 5 poteva, nei casi di maggior pericolo, essere ripristinata da uno dei due centrocampisti interni.

Dunque, alla fase difensiva partecipavano attivamente sempre 8 giocatori, mentre i 2 attaccanti (che quasi mai avevano l’ordine di pressare alti) rimanevano in avanti, allungando si la propria squadra, ma contribuendo ad allungare anche quella avversaria, esponendola così a pericolose ripartenze.
TRANSIZIONE DIFENSIVA
In fase di transizione difensiva, non partecipando attivamente alla costruzione della manovra offensiva, la linea di difesa non poteva mai essere presa alla sprovvista, poiché era sempre già schierata. Tuttavia, i difensori dovevano rimanere concentrati, pronti a leggere la giocata degli avversari, poiché la scelta principale era quella di concedere la profondità, salendo per far cascare gli attaccanti avversari nella trappola del fuorigioco. I centrocampisti esterni, invece, dovevano sempre ripiegare per poter aiutare, all’occorrenza, i quattro della linea.
TRANSIZIONE OFFENSIVA
Non vi era un confine netto tra la fase offensiva e la fase di transizione offensiva. Infatti la formazione veronese non cercava mai di sviluppare un’azione a ritmi blandi, ma tentava sempre di ripartire con verticalizzazioni rapide alte, o basse, verso gli attaccanti o i centrocampisti esterni.